Quel Tomac che non ti aspettavi
di Massimo Bonardi
Sembrava che nulla potesse più staccargli il verde da dosso, quasi fosse l’opposto di Superman e il color Kriptonite fosse il suo talismano, la sua forza. E invece no. Tutti increduli, esattamente come quando dopo quattro anni di successi, scelse Kawasaki lasciando la Geico Honda sollevando altrettanto clamore. A questo punto però, alzi la mano – con sincerità – chi una volta appreso del suo passaggio a Yamaha, non abbia emesso la stessa sentenza: “ecco, un anno per far cassa e poi si ritira” oppure, “sì, forse se ne parlerà nel national, perché di far girare quella motonave lì in un toboga di suprecross, non se parla neanche”.
Ed effettivamente “noi” ( perché inutile che la racconti, c’ero in mezzo anch’io) detrattori da bar, nelle prime due gare del campionato, avevamo trovato ferree conferme alle nostre teorie, non fosse che…Eli trova subito il podio nella terza prova di San Diego, si cuce addosso la blu col cilindro girato, con la calma di chi non ha assolutamente niente da dimostrare; da lì due vittorie, un secondo posto, il passo falso di Minneapolis e poi, non c’è più stata trippa per gatti. Quell’Eli Tomac che non ha mai avuto bisogno della disciplina di Aldon Baker – perché c’era suo papà John che già lo sfiniva ancora di più con le bici, sulle quali era stato campione – è partito con una serie vincente di sei gare, senza che si veda all’orizzonte chi possa realmente insidiare questa sua supremazia.
Inizia, o meglio continua, la sua scalata alla Hall of fame del motocross americano, supera Villopoto a quota 41 vittorie, raggiunge Chad Reed a quota 44, ha Carmichael – The G.O.A.T. – a sole quattro vittorie da aggiungere al suo palmares, ma la consacrazione definitiva arriva a Daytona. Lì in quella gara di transizione, che non è supercross ma neanche motocross, davanti ad un pubblico poderoso, come solo gli spalti di uno degli autodromi più famosi d’America può contenere, ha messo in scena il suo capolavoro, un “one man show” che dura da sei anni e che lo ha reso il più vincente della storia su questo particolarissimo tracciato, battendo il record proprio di Carmichael.
E della sua Yamaha? Ne vogliamo parlare?…Il dubbio è lecito, guardando ciò che hanno fatto prima altri piloti e quanto stanno facendo tuttora – nella 450 – i suoi compagni di marca. Era la Yamaha che aveva bisogno di Tomac, per essere messa nelle condizioni di competere anche nei circuiti stretti, o era il pilota del Colorado che necessitava di una moto meno nervosa, con un’erogazione corposa ma più morbida di quella che si può percepire dall’esterno di un Kawasaki. Personalmente sono per la prima teoria, ovvero che siano state la pazienza, la sensibilità del pilota, oltre ovviamente alla disponibilità di una squadra che ha creduto in lui, ad affinare un mezzo ritenuto non tra i più adatti alla specialità, a riportare – per il momento – al vertice della classifica di categoria il marchio di Hamamatsu dopo quasi tredici anni, da quel 2009 di James Stewart.
Gran bel lavoro Eli, non si può davvero fare altro che applaudire.
(Image Supercrosslive-Yamaha Racing)